Terremoto
Giovanni Russo, Corrado Stajano
Garzanti, Milano 1981
“Racconta Acocella che Calitri fu colpita da un altro terremoto nel 1910, alle ore 3,35 della notte. Ma già alle 5 la prefettura di Avellino è in contatto per telegrafo con Roma, dove alle 6,30 il presidente del consiglio, Luzzatto, si reca al Viminale e convoca i responsabili dei ministeri. Alle 9,30 si riunisce il consiglio dei ministri che delibera i provvedimenti urgenti e, alle 14, il re e la regina partono in treno per Avellino da dove la mattina dopo, con la ferrovia Rocchetta Sant’Antonio, giungono a Calitri e trovano già all’opera le squadre di soccorso dell’esercito e di volontari.”
Due giornalisti d’inchiesta di grande levatura attraversano la vasta area colpita dal terremoto, da Potenza a Napoli, dai paesi irpini a quelli del salernitano e ne scrivono, ciascuno per il proprio giornale, articoli che poi rivisti ed in parte riscritti finiscono in questo instant book pubblicato nel febbraio del 1981. Uno straordinario documento senza pari che racconta dal vivo e da dentro quello che accade nei paesi colpiti dal sisma, nei primi mesi dopo il 23 novembre 1980, un racconto vissuto in prima persona attraversando strade disagevoli, incontrando le persone, partecipando a conferenze affollate di cittadini e intervistando i protagonisti sul campo: quello che emerge rileggendolo oggi, è un racconto che traccia le difficoltà del presente ma che contiene in nuce già tutti i temi che caratterizzeranno la mai conclusa ricostruzione.
Alle molte vite che si sarebbero potuto salvare se lo Stato avesse celermente inviato aiuti e soccorsi, è dedicato questo libro, soccorsi che il presidente del Consiglio regionale della Campania, il socialista Giovanni Acocella racconta addirittura più celeri nel terremoto di 70 anni prima, uno Stato che anche dopo e nelle sue diverse articolazioni stenta a trovare una unità di azione e di visione: uno Stato, che ha il volto di Pertini, sconvolto da tanto dolore e rannicchiato e chiuso nella sua auto ad Avellino, che appare a Giovanni Russo un “povero vecchio, impotente”; lo Stato del Commissario Zamberletti, al cui piano di trasferire altrove le persone rimaste senza casa, le popolazioni oppongono una strenua resistenza, preferendo il freddo dell’inverno all’abbandono delle proprie terre e non sottostando al ricatto del mancato invio dei prefabbricati; ma anche lo Stato delle giovani Regioni incapaci di fornire una benchè minima risposta di azione e organizzazione sul campo, letteralmente “liquefatte” dal terremoto, lasciando tutto il peso dell’emergenza sui comuni, una assenza icasticamente rappresentata nella introduzione del libro dalle luci accese di sera nel palazzo della Regione Campania a via Santa Lucia, segnale sperato di una febbrile attività nei confronti di quei territori, stanze che invece gli autori scoprono incredibilmente deserte.
Nel racconto di quei primi giorni si rintracciano i primi segni di abbandono della opinione pubblica nazionale che alla prima ondata di solidarietà, riscopre la diffidenza e l’antico pregiudizio anti-meridionale, le prime discussioni politiche che porteranno all’ampliamento del numero dei comuni danneggiati perché si comprende che ingente sarà il fiume di danaro che arriverà; il tema dei senzatetto di Napoli, che caricherà la ricostruzione post-terremoto del compito immane di rispondere ad antiche emergenze, le barricate e le proteste dei proprietari delle seconde case di Pinetamare e della Baia Domizia che non accettano che gli vengano requisite per ospitare terremotati; e la mano della camorra che già nella notte del terremoto si organizza per lucrare sui soccorsi e successivamente entrare nell’affare della ricostruzione, e che non esita ad ammazzare una persona perbene come Marcello Torre, Sindaco di Pagani, perché di intralcio agli affari loschi che devono realizzarsi.
Un tema si rincorre in molte pagine di questo racconto, ed è il ruolo del numero enorme di volontari che giungono da ogni parte d’Italia ed alla cui preziosa opera, gli autori dedicano simbolicamente l’ultimo capitolo del libro, facendo parlare in prima persona una di queste ragazze, proveniente da Milano, che racconta la sua esperienza. Si fa presto strada la convinzione di un intralcio dei volontari, che organizzano i primi soccorsi e gestiscono i magazzini degli aiuti, agli occhi dei piccoli potentati locali che, spaventati e silenti nella prima fase quando la oggettiva e umiliante mancata risposta dello Stato, per loro che se ne ritenevano i rappresentanti locali, gli aveva consigliato di ripiegare, e che riprendono presto vigore quando il tema diventa la spartizione delle risorse, e la conseguente necessità della consueta pratica della intermediazione. I volontari sono da allontanare perché vengono visti come coloro che rompono la dialettica del diritto visto come favore, e possono instillare nella popolazione idee di ribellione. Presto ritornano sulla scena quelli che Carlo Levi chiamava i “luigini” i rappresentanti dei piccoli potentati locali, dei piccoli borghesi che da sempre spadroneggiano su queste terre. Gli autori, giunti a Campagna, nel salernitano, li descrivono così:
“A Potenza i «signori» si erano accaparrati l’albergo più sicuro nella valle. A Napoli, ad Avellino, Salerno, i funzionari, i proprietari, i professionisti avevano mandato mogli, figli, cugini nelle «seconde case» costruite con i fondi della Cassa del Mezzogiorno, pochi giorni dopo il terremoto, non perché la loro fosse lesionata o caduta, ma nel timore che trovandole vuote l’autorità le requisisse.
Persino a Sant’Angelo dei Lombardi, mentre vigili e volontari lavoravano solo con vanghe e picconi tra le macerie, per cercare di salvare qualche sepolto vivo, un uomo grasso, ben vestito, forse un proprietario terriero o un avvocato, mi aveva stravolto: «Pensi che è crollato anche il palazzo del Circolo e così sono morte anche tante persone per bene.» Ma a Campagna la figura emblematica del «luigino» si è incarnata completamente nella persona di Don Michele, proprietario nullafacente, detto «il signorino», perché scapolo e convivente con due sorelle maestre.
[…]
Mi trascina sotto una tenda dove su brande e materassi, nell’umido e nel fango, stanno accovacciati una donna e due bambini e non fa parlare nessuno: «Ascolti,» mi dice «lo sa che i pompieri stanno demolendo le case pericolanti? Il mio palazzo ha solo il tetto scoperchiato. Nel salone ci sono arazzi e lampadari del Seicento. Ho chiesto al segretario comunale, mio amico, di ordinare ai pompieri di stendere un tendone sulle travi. Mi ha detto che devo aspettare perché bisogna fare prima gli abbattimenti. Lo scriva che la disorganizzazione qui è completa.»
Lo interrompe un uomo con un impermeabile giallo di plastica: «Don Michele lasciatemi parlare. Sono un contadino, mi chiamo Antonio Guarnieri, ho perso la casa. Con mia moglie e i miei due bambini dormivamo da sei giorni in una baracca che è anche la stalla dell’asino, quando stanotte è franata la montagna. Se non mi danno una tenda dovremmo dormire all’addiaccio.» Ma a Don Michele sembra una cosa di poco conto. Lo scosta e mi fa: «Tenga presente che queste tende sorgono sulla mia proprietà e che tutti si riscaldano con la legna delle mie piante.» Nessuno però lo ascolta.”
orlando di marino