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Bjarke Ingels su “Il Giornale dell’Architettura”: dobbiamo saper interpretare e progettare il cambiamento

Gianluigi Freda
Il Giornale dell’Architettura
19.07.2022

Ospite a Napoli, ci ha parlato delle responsabilità dell’architetto, di necessità globali nella dimensione locale e delle similitudini tra architettura e arte del ritratto

Bjarke Ingels (Copenaghen, 1974) ha realizzato edifici pluripremiati a livello globale, è stato nominato Cavaliere dell’Ordine francese Arts et Lettres nel 2018 e insignito del Leone d’Oro alla Biennale di Venezia nel 2004. Ha insegnato all’Università di Harvard, alla Yale University, alla Columbia University e alla Rice University ed è professore onorario presso la Royal Academy of Arts, School of Architecture di Copenaghen. Nel 2005 ha fondato BIG (Bjarke Ingels Group), dopo avere co-fondato PLOT Architects nel 2001 e lavorato presso OMA a Rotterdam. BIG è un gruppo di architetti, designer, urbanisti, paesaggisti, interior e product designer, ricercatori e inventori con sede a Copenaghen, New York, Londra, Barcellona e Shenzhen. L’ufficio è attualmente coinvolto in un gran numero di progetti in Europa, Nord America, Asia e Medio Oriente. L’architettura di BIG nasce da un’attenta analisi dell’evoluzione e delle continue trasformazioni della vita contemporanea, dell’influenza dello scambio multiculturale, dei flussi economici globali e delle tecnologie di comunicazione, alla ricerca di una fertile sovrapposizione tra pragmatico e utopia.

Abbiamo intervistato Ingels in occasione della sua presenza al Palazzo Reale di Napoli, dove a inizio giugno ha tenuto “Plan for Planet”, conferenza parte del ciclo d’incontri “Protagonisti dell’architettura contemporanea”, promossa dalla Fondazione Annali dell’Architettura e delle Città e dalla Regione Campania.

Che ruolo ha l’invenzione nel vostro processo progettuale e in che modo l’invenzione diventa innovazione, ovvero abbandona il campo della soluzione creativa occasionale per definire nuove modalità di organizzare il progetto di architettura?

Il mondo che ci circonda è in perenne trasformazione, a causa degli avanzamenti tecnologici e dei mutamenti che riguardano comportamenti e dinamiche sociali. Ogni giorno, però, aumentano le possibilità che abbiamo a disposizione, così come progredisce la tecnica ed evolve la capacità realizzativa degli uomini. Ma non necessariamente questa attitudine al cambiamento, che ha segnato la nostra epoca, è sempre caratterizzata da conseguenze positive: il cambiamento climatico ne è l’esempio più eclatante, ma non è l’unico aspetto, che appartiene al futuro, a destare qualche inquietudine. In ogni caso, il nostro modo di pensare il progetto di architettura rischia di non essere in grado di accogliere il cambiamento e di non adattarsi alla vita delle persone.

Per queste ragioni, ritengo che una delle maggiori responsabilità di un architetto oggi sia di osservare, ascoltare e identificare il cambiamento e, se possibile, di prevederlo. Non soltanto perché non capire quanto il mondo stia cambiando rischia di disperdere il lavoro fatto e non rendere efficace l’architettura, ma anche perché la prefigurazione di nuovi scenari di vita diventa occasione per esplorare nuovi modi di concepire le idee e di stabilire nuove modalità di progetto. Non si deve, però, scambiare questo atteggiamento per una ricerca vuota della novità a tutti i costi, per mera invenzione. Le innovazioni più radicali, al contrario, nascono dall’osservazione attenta dei limiti attuali e delle necessità future. Noi architetti abbiamo il dovere di adattare il progetto alle trasformazioni in corso, migliorando la vita e anticipando soluzioni ai problemi che il futuro ci riserva.

L’architettura sarà chiamata a rispondere sempre di più a domande di progetto meno radicate ai luoghi e più aderenti a modelli globali, in termini sociali, politici, economici: questa eventualità è un pericolo, ovvero una progressiva perdita di valori legati alle identità, o è una possibilità per ridefinire un linguaggio comune, che vada oltre le differenze, e dunque, in questo senso, più democratico?

Se poste all’interno di un quadro di regole e di valori etici, la dimensione globale e quella locale possono certamente trovare un’armonia. Se pensiamo ai 17 Obiettivi per lo sviluppo sostenibile stabiliti dalle Nazioni Unite, diventa subito chiara la volontà globale di trasformare il mondo promuovendo la prosperità e proteggendo il pianeta: la lotta alla povertà, la parità di genere, la città sostenibile e gli altri obiettivi sono valori fondamentali in cui tutte le comunità possono riconoscersi e che possono essere perseguiti grazie a queste disposizioni dall’alto, valide per Bruxelles, Napoli o per qualunque altra città italiana o europea. Questi obiettivi comuni impongono che, ad un certo livello decisionale, il potere nazionale si assoggetti a una volontà più alta, senza, però, che questo implichi necessariamente una perdita d’identità o della centralità di ruolo di una singola nazione all’interno di un’ampia collaborazione tra i diversi Stati, perché la persistenza di ogni identità regionale è altrettanto necessaria. Intendo dire che questo corpo di regolamenti e obiettivi non possono ignorare le specificità dei luoghi. Dunque, è necessario cercare il giusto modo per inquadrare queste necessità globali all’interno della dimensione locale, difendendo i valori identitari senza perdere di vista quei cambiamenti per i quali noi tutti dobbiamo impegnarci.

In questo senso, la storia dell’architettura del Novecento ci ha già lasciato in eredità un insegnamento: uno dei difetti del Modernismo, infatti, è stata la volontà di neutralizzare, attraverso l’equivoco dell’International Style, il carattere regionale e locale, inseguendo una risposta linguistica omogenea. Una conseguenza di questo atteggiamento, sia per gli architetti del moderno che per quelli contemporanei, è stata la riscoperta del vernacolare: un’architettura non può essere la stessa a Copenaghen, a Napoli o a Capetown, perché sono diverse le condizioni climatiche, culturali e sociali e la risposta dell’architettura non può essere la stessa, quale che sia il problema o le condizioni che la rendono necessaria.

Allo stesso modo, un quadro di riferimento generale di leggi, la vocazione a principi equi e valori condivisi, come per esempio i 17 Obiettivi delle Nazioni Unite, devono essere saldamente difesi a livello globale, ma dobbiamo essere anche capaci di declinarle localmente, per non disperdere la storia e l’unicità della dimensione regionale in nome del globalismo. Inoltre, ogni città ha i suoi problemi specifici da risolvere, oltre a quelli più grandi che coinvolgono le generazioni future del pianeta. Napoli e la Campania, così come le altre città del mondo, devono trovare le giuste risorse intellettuali per rispondere a questo duplice ordine di problemi.

Gestire la tensione tra modernità e tradizione è un’operazione sempre difficile. Immaginiamo che BIG debba costruire a Napoli, dove questo conflitto diventa particolarmente emblematico: siete pronti a rideterminare il vostro processo creativo stabilendo nuove regole che si adattino a Napoli, o per liberare questa città dai suoi problemi è necessario il contrario, ovvero che sia la città ad adattarsi alla vostra modalità progettuale?

Spesso dico che l’architettura è paragonabile alla ritrattistica: si può certamente dire che la Monna Lisa sia espressione dell’idea che Leonardo aveva della donna ritratta, ma è anche vero che il ritratto è la diretta espressione di Monna Lisa stessa, ovvero la percezione della realtà da parte dell’autore e la verosimiglianza del reale trovano una forma sintetica nel ritratto. L’abilità dell’artista consiste non solo nel cogliere il dato realistico e restituirlo attraverso l’immagine, ma anche nel dare forma alla propria percezione dell’intima essenza del soggetto ritratto. In questo senso, anche l’architettura somiglia all’arte del ritratto.

Vale per ogni progetto del nostro studio, ma se un giorno dovessimo progettare qualcosa a Napoli, per prima cosa dovremmo conoscere Napoli nel profondo, conoscerne gli aspetti più intimi e caratterizzanti, i limiti e le potenzialità, per stabilire una serie di azioni precise che potranno poi portare a costruire una nostra visione di Napoli, non soltanto in continuità con quello che è adesso, ma contribuendo a ciò che potrà diventare in futuro.

La storia di Napoli, così ricca e complessa, è uno degli aspetti della città dai quali non si può certamente prescindere, ma è anche vero che non possiamo soccombere al suo peso senza pensare a quello che la città può diventare. La storia è una sequenza di eventi che condizionano e danno forma al nostro presente, ma noi architetti abbiamo il potere, le opportunità e la responsabilità di dare una nuova forma al futuro, senza accettare passivamente un’eredità che viene da lontano, ma comprendendo in che modo possiamo stabilire nuove regole per le prossime generazioni, a prescindere da quanto è accaduto in passato, benché la storia e l’identità di un luogo vada sempre rispettata.

Napoli rappresenta molto bene la tensione tra storia e innovazione. È una città con un patrimonio artistico, architettonico, culturale e paesaggistico di grande respiro, ma ha anche moltissimi problemi. È una condizione, questa, molto felice per il progetto che, se costretto a confrontarsi con grande problemi da risolvere, è in grado di maturare una soluzione mai pensata prima, che può finalmente permettere alla città di funzionare meglio ed evolversi.

Non ho visto molto di Napoli, soprattutto di architettura moderna o contemporanea, ma quello che mi è sembrato di scorgere, nei pochi esempi di questo tipo che ho incontrato, è la volontà di riscoprire relazioni nascoste o perdute. Ho la sensazione che Napoli sia piena di questo tipo di relazioni interrotte e credo anche che possano diventare un’occasione significativa per il progetto di architettura contemporaneo, che guarda coraggiosamente al futuro, senza per forza voltare le spalle al passato.

https://ilgiornaledellarchitettura.com/2022/07/19/bjarke-ingels-gli-architetti-devono-prevedere-il-cambiamento/