Le città bianche

Joseph Roth
Adelphi, Milano 1986

 

Il bianco delle pietre, il blu del cielo, il verde scuro dei giardini: i colori che Roth vede e racconta in questi reportages di viaggio del 1925, sono una risposta al grigio del mondo in cui è nato e cresciuto, il simbolo stesso della sua evasione dal recinto germanico per rifugiarsi in quel sud dove i concetti sono meno rigidi, le norme più flessibili. In quei luoghi trascorrerà il resto della sua esistenza in un grande girovagare, riflettendo sulla perdita della propria giovinezza passata in guerra, una immane tragedia per una intera generazione, una guerra arrivata “dopo aver fatto affidamento fin dalla nascita, alla assoluta stabilità della terra”; sono luoghi che ama, appropriati nel suo sentire alle pagine che scrive, perché come dirà ad Adolf Loos incontrato in un albergo in Costa Azzurra, “per lavorare ho sempre bisogno di trovarmi nell’ambiente giusto”.

Il viaggio si snoda attraverso le città che punteggiano la valle del Rodano, da Lione con i suoi resti romani, dove “come in tutto il mondo i quartieri operai invecchiano rapidamente”, fino alla laboriosa Marsiglia: tappe intermedie sono le città di Vienne, Nimes, Arles e Tarascona la città della mitica creatura Tarasque simbolo del male arcaico domato dalla cultura cristiana.  

Joseph Roth, cittadino del Grande Impero Austro-Ungarico, ne racconterà il suo dissolversi in straordinari romanzi come La marcia di Radetzsky e La cripta dei cappuccini, intrisi di nostalgia nei confronti di un mondo scomparso con il conflitto mondiale, dove la nascita di nuovi nazioni ha soppiantato i simboli ed i valori della “Cacania”, ossia il luogo di una società plurale dove convivevano popoli, lingue e religioni diverse. Seduto nella piazza di Avignone, Roth vede il mondo come lo vorrebbe e, forse, intravede i segni della tragedia imminente che si para dinanzi alle nazioni europee:

Che timore ridicolo hanno le nazioni, e perfino le nazioni che vantano una mentalità europea, se credono che questa o quella «peculiarità» possa andar perduta e che dalla colorita varietà degli esseri umani possa scaturire una poltiglia grigiastra! Gli uomini infatti non sono dei colori, e il mondo non è una tavolozza! Quanto più numerosi sono gli incroci, tanto più nette resteranno le peculiarità! Io non riuscirò a vedere quel mondo meraviglioso in cui ogni singolo rappresenterà l’intero, ma già oggi intuisco un simile futuro quando siedo nella Piazza dell’Orologio di Avignone e vedo rifulgere tutte le razze della terra nel viso di un poliziotto, di un mendicante, di un cameriere. E’ questo il grado più alto di quella che viene chiamata «umanità».”

orlando di marino

 
 
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