Il pregiudizio degli architetti. La ricostruzione in Irpinia dopo il terremoto del 1980
Arrivammo in Irpinia per la ricostruzione con fermi convincimenti disciplinari e qualche pregiudizio sulla realtà che ci stava di fronte.
Per i criteri di intervento, emergeva un generico concetto di identità da salvaguardare e da coniugare con un altrettanto generico concetto di sviluppo. Non erano pochi quelli che nella precedente frase sostituivano la congiunzione e con ma. Fin da subito infatti, v’era il dubbio – poi dimostratosi fondato – che la salvaguardia dell’identità (quale?) fosse di problematica conciliazione con lo sviluppo (quale?). Sul piano degli orientamenti progettuali, disponevamo dell’alternativa tra il sempre conciliante «dov’era e com’era» laddove esisteva un’idonea documentazione (ma anche ove non c’era, ricorrendo ad improbabili à l’identique alla Viollet-le-Duc) e un progetto urbanistico-architettonico con il quale affermare un «nuovo», spesso solo cronologico.
I pregiudizi sulla realtà del territorio irpino scaturivano da due fortunate metafore coniate all’interno di corposi studi storico-economici: andavamo nei territori dell’«osso d’Italia», secondo l’icastica definizione di Manlio Rossi Doria, popolati da «paesi presepe», come Francesco Compagna chiamava i centri rurali dell’Appennino. Metafore che restituivano appieno l’idea che generalmente si aveva di quei territori. Da un lato, l’indigenza economica grave per l’assenza di «polpa» che abbondava invece sulle fasce costiere italiane, dall’altro la bellezza di questi paesi familiare, calda, da presepe appunto. Solo i nostri économistes meridionalisti avevano capito che c’era un rapporto stretto tra le due situazioni, che l’immagine ordinata e intatta per secoli di quei paesi nascondeva una terribile condizione di povertà e sottosviluppo che si esprimeva anche con una diffusa indigenza abitativa. Più estetizzante era l’atteggiamento della cultura architettonica tendente a una conservazione dello stato di fatto, senza negoziare i caratteri e le modalità di una trasformazione necessaria. Con questo scarno viatico culturale, geografico e professionale e con gli ingegneri come sodali, abbiamo gestito per decenni grandi e piccoli progetti d’architettura, restauri di importanti complessi monumentali e di minuta edilizia di contesto, piani regolatori e di recupero, infrastrutture e attrezzature come mai questa parte d’Italia aveva visto sorgere dal nulla e nel nulla, neppure nella piena epopea della Cassa per il Mezzogiorno.
Quarant’anni dopo. Paesi e paesaggi sono profondamente cambiati, nessuno più si interroga sul concetto di identità. Tutti ammettono che sia arrivato un po' di benessere. Molto precario, aggiungono gli analisti guardando i duemila irpini che ogni anno lasciano questo territorio. Tutti conveniamo che le case siano diventate più confortevoli e più sicure e ci riteniamo appagati da questo pur importantissimo risultato. Rinunciamo per questo a discutere se siano anche le case più giuste per questi abitanti in questi luoghi? Se nella tipologia, nei materiali, nell’uso, negli spazi pubblici, nel rapporto con il contesto urbano e con il paesaggio, queste case abbiano qualche affinità elettiva che rinvii a una identità, questa volta non generica ma specifica, quella dell’appartenenza dell’architettura ai luoghi in cui è insediata?
La risposta, decisamente negativa, è nei palazzi con pinnacoli e mansarde alpini costruiti sul Corso di Avellino, nelle stecche-siedlungen collinari a Teora, dei bipiani-crescent a Bisaccia e nelle decine di agglomerati che si vorrebbero nuove città ma sono tali solo perché vengono dopo quelle vecchie distrutte dal terremoto. A Teora s’è registrato il cortocircuito più bruciante d’una cultura architettonica che qui come altrove non riesce a conciliare qualità progettuale e condivisione sociale dei risultati, un binomio che rappresenta già una prima, attendibile definizione del concetto di identità. Il quartiere Pianistrella è stato rifiutato all’inizio dagli abitanti per un rigorismo modernista considerato eccessivo; nessuna concessione al piacere d’avere un balcone, un rapporto diretto con la strada che sono tra gli emblemi del vivere comunitario nei piccoli paesi. Favore incondizionato degli abitanti invece per il centro storico rifatto dov’era e com’era, ma non si pensi che questa sia la soluzione corretta. È il «nuovo» del Pianistrella che mostra d’avere più d’un problema a farsi accettare. Il quartiere è un progetto d’autore, ideato da Agostino Renna (con Edoardo Guazzoni e Carlo Manzo) nativo di Teora. Ciò nonostante, progetto irrisolto per eccesso di autorialità. La risposta agli interrogativi sopra formulati è ancora nei municipi e nei centri culturali di migliaia di metri quadrati in comuni di due, tremila abitanti, negli impianti sportivi da competizione, negli ettari di verde attrezzato in paesini ai margini di boschi e verde agricolo; infine e soprattutto, va individuata nelle immense e oggi in gran parte desolate aree industriali nelle quali s’è giocata la partita più importante per lo sviluppo, ed è stata persa.
Un pensiero eccessivo sembra aver ispirato e poi governato tutta la ricostruzione generando una dismisura degli interventi progettuali, tutto in eccesso, tutto troppo grande, risorse impegnate e scandali compresi.
Sviluppo, industria, identità. Parole ricorrenti d’una vecchia storia che non ha mantenuto le promesse. Cultura, turismo, accoglienza. Parole d’una nuova storia che sembra aprirsi per il territorio a quarant’anni di distanza dal terremoto. Cultura e turismo sono fenomeni già attivi da tempo, l’accoglienza rientra nella tendenza a riabitare i piccoli paesi avvalendosi della possibilità del lavoro a distanza. Sono ambiti che consentono un discreto benessere se ben organizzati, possono avere economie di scala più aderenti alle singole realtà territoriali, non richiedono stravolgimenti degli assetti urbanistici, favoriscono in misura esponenziale le relazioni e gli scambi tra territori e comunità. Lo scenario sul quale si svolge questa nuova storia, non si può più definire, in ogni caso, un territorio dell’osso e il numero dei paese presepe è sempre più ridotto. In tal senso, il terremoto del 1980 ha segnato anche uno spartiacque nel pensiero e nelle parole del meridionalismo.
Nessuna illusione, dopo la prima che puntava sull’industrializzazione, che questa sia la strada giusta per ripartire con la speranza. Ma al momento appare quella più percorribile ed ha il pregio di avere misura e progetti commisurati agli obiettivi.
Pasquale Belfiore