Crisi pandemica, diseguaglianza sociale e disagio abitativo

Mi permetto di avanzare una proposta per la task force guidata da Colao (considerato, tra l’altro, che al suo interno non ha nessun esponente del mondo dell’architettura e delle costruzioni) in vista della “rinascita” della fase 2 o 3 o non so quale.

Avviare un grande programma di edilizia residenziale pubblica per le fasce deboli della popolazione.

Non so come cambierà il nostro sistema di sviluppo nei prossimi anni, come muteranno le città, quale modello economico si affermerà dopo questi eventi: ma so che tra le conseguenze di questa crisi sanitaria e del lockdown del sistema economico-produttivo ce n’è una particolarmente preoccupante: l’acuirsi delle diseguaglianze sociali e l’aumento di cittadini italiani in condizioni di povertà assoluta e relativa.

La crisi del coronavirus, d’altra parte, si innesta in uno scenario mondiale di disparità nella distribuzione della ricchezza già molto allarmante e peggiorata progressivamente negli ultimi anni. Pensiamo alla realtà dei lavoratori precari, cresciuti in modo esponenziale in questi anni, delle persone con contratti a termine o a chiamata, di chi vive di economia informale, della grande massa di lavoratori autonomi.

Questa crisi rischia di riflettersi pesantemente anche sulla condizione abitativa delle fasce deboli di popolazione, aggravando, anche in questo caso, una emergenza già molto preoccupante in numerose città italiane prima della pandemia.

In questi mesi di permanenza forzata nelle abitazioni è emerso in tutta la sua crudezza il disagio di chi è costretto a vivere 24 ore in case piccole e inadeguate. Per molti la casa non è stata un comodo rifugio ma un luogo opprimente.

E’ necessario chiedersi quante famiglie saranno presto a rischio di sfratto per morosità avendo perso le risorse per sostenere i canoni di affitto. Quante rischiano di perdere la casa di proprietà perché impossibilitati ad onorare il proprio mutuo.

Sappiamo che in Italia gli impegni finanziari dedicati al “diritto all’abitare” ed all’edilizia sociale pubblica negli ultimi trent’anni sono stati bassissimi. Siamo da molto, troppo tempo il paese europeo che spende meno in questo settore. Il Pil impiegato attualmente dallo Stato italiano per la costruzione di alloggi popolari è intorno allo 0,02 per cento, mentre la media europea è del 3%.

In Europa un quinto delle famiglie vive in un alloggio sociale. In Italia solo il 3,5%. Le 700 mila famiglie che occupano gli alloggi ERP sono appena 1/3 di chi ne ha veramente bisogno. L’offerta abitativa pubblica in Italia, dagli anni ‘80 si è ridotta del 90%.

Per tutte queste ragioni propongo a chi ha la responsabilità di programmare gli interventi per la “ripresa” di avviare un piano di investimenti per edilizia residenziale pubblica e che tale piano debba essere considerato, accanto all’impegno per una migliore sanità pubblica o per più servizi sociali, una componente essenziale per un nuovo welfare in grado di diminuire precarietà e povertà. Non solo quindi risorse per le opere infrastrutturali, pur estremamente necessarie e urgenti.

Il patrimonio di edilizia residenziale pubblica disponibile non basta e non basterà per dare risposte a chi si troverà in situazioni di disagio abitativo ed occorre essere consapevoli che i “timidi” tentativi di social housing sperimentati in questi anni ed affidati principalmente a promotori privati, non sono e non saranno sufficienti.

Molti prefigurano per il dopo crisi una “economia da dopoguerra”. Possiamo allora guardare ad una nostra storia non molto remota, legata, appunto, alla “ricostruzione” post bellica.

Nel 1949 il Parlamento italiano approvò il progetto di legge voluto dall’allora Ministro del Lavoro, Amintore Fanfani, denominato “Provvedimenti per incrementare l’occupazione operaia, agevolando la costruzione di case per lavoratori”, più comunemente noto come Piano Ina Casa.

Quel piano consentì a migliaia di famiglie di migliorare la propria condizione abitativa e contemporaneamente di offrire una risposta efficace al problema della disoccupazione.

Fu uno degli interventi più significativi della politica economica e sociale del nostro paese nel dopoguerra. In 14 anni di attività quel piano consentì la realizzazione di circa due milioni di vani offrendo una casa in affitto a basso costo oltre 350.000 famiglie italiane, tra cui moltissime famiglie di “immigrati” dalle nostre campagne e dal mezzogiorno d’Italia.

Per gestire questo complesso intervento furono create due strutture che “centralizzarono” l’intero sistema di gestione e controllo: un Comitato di attuazione del piano diretto da un ingegnere, Filiberto Guala, e la Gestione INA-Casa, responsabile del coordinamento di tutti gli aspetti architettonici e urbanistici, guidata dall’architetto Arnaldo Foschini, preside della facoltà di Architettura della capitale.

Guardando a quell’esperienza e al bisogno che abbiamo oggi di una ricostruzione sociale, pur in assenza di macerie fisiche, occorre avviare presto un nuovo grande piano di edilizia popolare, investendo per esso risorse significative. Risorse molto più ampie del miliardo di euro proposto dal Ministro delle Infrastrutture De Micheli e inserito nella legge finanziaria 2020 per “migliorare la qualità dell'abitare, con la rigenerazione degli edifici, il sostegno alle famiglie in affitto, i cantieri nei piccoli comuni".

Naturalmente oggi il tema non andrebbe più coniugato in termini di creazione di nuovi quartieri, nuove periferie, nuovo consumo di suolo.

La necessità di dotare ampia fasce di popolazione di edilizia sociale deve oggi confrontarsi con i temi della rigenerazione urbana, del riuso e riqualificazione dell’ingente patrimonio immobiliare pubblico e privato dismesso, di una produzione edilizia ispirata alla sostenibilità ambientale e sociale ed all’efficienza energetica, della rivitalizzazione delle aree interne del Paese e dei borghi disabitati.

Un piano per la casa che sappia anche offrire nuove risposte ai problemi dell’accoglienza e dell’integrazione di nuovi lavoratori immigrati, spesso vittime di un disagio abitativo tra i più estremi.

In sostanza un intervento del soggetto pubblico, come fu per il piano Fanfani, in grado di orientare le politiche di rigenerazione delle nostre città e dei nostri territori e di attuare, concretamente (e finalmente) quanto previsto dalla Risoluzione dell’Unione Europea del 2001 che invitava gli Stati Membri “a promuovere la qualità architettonica attraverso politiche esemplari nel settore della costruzione pubblica”.

Un programma di investimenti in welfare abitativo gestito senza grovigli di competenze, organismi e soggetti ma con sistemi di controllo e organizzazione centralizzati e qualificati, affiancati da un organismo scientifico in grado di dare qualità alle progettazioni, di organizzare e indire concorsi veri di architettura, di offrire contributi disciplinari seri per garantire alti standard di qualità.

Francesco Orofino
Segretario Generale In/Arch


 
Tavola in folio da Irenio Diotallevi e Franco Marescotti, Il problema sociale costruttivo ed economico dell’abitazione, Milano 1948

Tavola in folio da Irenio Diotallevi e Franco Marescotti, Il problema sociale costruttivo ed economico dell’abitazione, Milano 1948

 
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