In ricordo di un maestro

 
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Quindici anni fa, alla domanda come avrebbe voluto morire, Vittorio Gregotti rispose: “nel mio letto, durante il riposo pomeridiano, come mio padre”. Ed invece gli è toccato andarsene da un letto dell’ospedale San Giuseppe di Milano, anche lui vittima di una polmonite causata dal coronavirus. Aveva 92 anni e dunque il profilo, per così dire sanitario, tipico dei caduti della guerra che Milano, la Lombardia, l’Italia tutta sta combattendo in questi giorni. Con una contabilità delle perdite che nulla consente, nella velocità vorticosa della implementazione dei numeri, alla pietà e forse anche al ricordo dei cari caduti sul campo. Poi, come d’improvviso, tra le cifre che scorrono, emerge un nome, un volto e una storia, come quella di Vittorio Gregotti che la storia, almeno quella dell’architettura italiana dell’ultimo secolo, l’ha impersonata come nessun altro.

 
 

Era nato a Novara, il 10 agosto del 1927, leone ascendente leone. Si laurea al Politecnico di Milano nel 1952 e il suo tirocinio lo svolge a studio dai BBPR, con Ludovico Meneghetti e Giotto Stoppino. Nella sua cronologia e formazione, nei luoghi dove sperimenta e realizza le prime opere, vi è come la traccia di un itinerario, professionale e culturale, che ne farà di lui oltre che uno dei progettisti più prolifici della sua generazione, un indiscusso maestro e riferimento per quelle successive. Gregotti si nutre ed attinge alla scuola milanese, gli architetti che traghettano l’Italia dall’esperienza bellica alla ricostruzione prima ed al boom economico subito dopo, contribuendo a definire un linguaggio ed una poetica, come mai forse avverrà negli anni successivi. Ma con Gregotti la lezione del razionalismo italiano e poi del regionalismo si aprono a nuove istanze e declinazioni teoriche e formali. Perché accanto alla produzione, all’ideazione e realizzazione di circa 1600 opere nei 60 anni di attività incessante, Vittorio Gregotti è stato docente universitario, critico, teorico, saggista, polemista. Dal 1982 al 1996 ha diretto la rivista Casabella, che prima di lui il suo maestro Ernesto Nathan Rogers aveva riportato in edicola nel 1953, facendola diventare un riferimento per il dibattito disciplinare allora ancora vivace ed in grado di influenzare tendenze e modelli progettuali. Nella sua personale rilettura della “tradizione del moderno” è soprattutto la nozione di contesto che orienta le scelte e definisce i materiali del progetto, nella costruzione di una personale poetica e di un sempre più riconoscibile linguaggio.

 
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Il suo studio, Gregotti Associati, lo fonda nel 1974, e da allora è un susseguirsi di incarichi prestigiosi, in una ventina di paesi, oltre l’Italia. Non c’è praticamente campo in cui non si sia esercitata la sua capacità ideativa, di sperimentazione, di applicazione dei principi e teorie da lui elaborate. Tra la fine degli anni ’60 e l’inizio del decennio successivo si sviluppa in Italia un confronto fecondo sui nuovi modelli insediativi universitari e Gregotti vi partecipa attivamente, con la realizzazione delle sedi del Dipartimento di Scienze dell’Università di Palermo e, soprattutto, con l’innovativa soluzione pensata per l’università calabrese di Arcavacata, cui pure lavora il napoletano Massimo Pica Ciamarra. Uffici, centri di ricerche, ospedali, residenze e tra queste, tra le prime opere progettate, il discusso quartiere Zen di Palermo, assurto inopinatamente, con le Vele di Secondigliano e il Corviale di Roma, ad archetipo della “architettura criminogena”, quella, per intenderci, che genererebbe comportamenti asociali e devianti. Uno spazio particolare lo occupano, a partire dal 1984, gli impianti sportivi e gli stadi di calcio, da quello olimpico di Barcellona, di Nìmes, in Francia, al Luigi Ferraris di Genova. Ma è davvero sterminato l’elenco di opere realizzate dallo studio Gregotti Associati, in più di mezzo secolo di attività: dall’intervento a Potsdamer Platz, a Berlino al Centro Culturale Belem a Lisbona, ai Teatri degli Arcimboldi di Milano e quello dell’Opera di Aix-en-Provence, ai progetti di restauro o allestimenti museali, la ristrutturazione della sede del Corriere della Sera e perfino alla serie di navi da crociera della Costa. Numerosi anche i piani regolatori redatti, in questo caso in particolare dal socio di Vittorio Gregotti, l’urbanista Augusto Cagnardi, da quello di Torino al ben più famoso piano per una città nuova a Pujiang, Shanghai. Ma è soprattutto un tema che lega l’intera opera di Gregotti, che ritorna costante e finisce per caratterizzare, più di ogni altro, la sua opera, quasi a ricondurlo alle sue origini familiari e luoghi dell’infanzia: la fabbrica, gli edifici industriali e la loro riconversione nell’epoca, in parte da lui praticata quasi in anticipo rispetto al discorso pubblico, della rigenerazione urbana. Così è il quartiere della Bicocca, e la trasformazione da luogo di produzione a sede di residenze, uffici, dipartimenti universitari ad assurgere a metafora dell’idea di città e contemporaneamente di tessuti urbani e singole architetture, che forse più di ogni altra racchiude e sintetizza il pensiero gregottiano. E non è un caso che anche l’ultima sua opera, prima di chiudere lo storico studio di via Matteo Bandello, nel 2017, sia stata la riconversione dell’ex fabbrica a Teatro Fonderia Leopolda a Follonica. Ma forse è proprio a Napoli, città fino ad ora priva di una sua opera, se si esclude il centro di ricerche dell’Enea realizzato a Portici nel 1978, che dovrebbe essere inaugurato postuma la sua sede della Facoltà di medicina a Scampia, un progetto travagliato e finalmente in via di ultimazione.

 
 

Vittorio Gregotti, nella sua intensa vita, ha esercitato un’influenza come nessun altro tra gli architetti italiani. Dalla sua cattedra all’UAV di Venezia, dalla direzione della Biennale d’Architettura e di Casabella ha orientato il dibattito, promosso nuove leve di progettisti e di docenti, criticato ed avversato quelli che promuovevano teorie e pratiche progettuali contrastanti con le sue. Ha più di ogni altro speso le sue energie finali contro le derive autoreferenziali dell’architettura e delle archistar, la dissoluzione del progetto di architettura come pratica sociale ed artistica. Dalle sue polemiche nei confronti di tendenze come il postmodern, ai richiami nei confronti dell’importanza, per una disciplina come l’architettura, di dotarsi di un autonomo statuto, Vittorio Gregotti non ha mai smesso di mettere in guardia dal pericolo rappresentato, a suo dire, da tre rinunce: “la rinuncia al disegno di modificazione del presente come progetto di confronto critico con il contesto, la rinuncia alla capacità di vedere piccolo, con precisione, tra le cose, e la rinuncia alla durata dell’opera di architettura come metafora di eternità”.

Bruno Discepolo