Vittorio Gregotti: una grandezza certa, una verifica necessaria
Vittorio Gregotti ha scritto l’ultimo capitolo italiano della grande esperienza del Movimento Moderno internazionale. Non il MM delle origini, quello epico e pevsneriano da Morris a Gropius ma quello della diaspora che inizia dal secondo dopoguerra, si scompone in mille -ismi figurativi e naufraga sulla spiaggia mondana e scaltra (come il suo vate Philip Johnson) del Postmodernismo che fa apparire archeologia tutto ciò che di architettonicamente innovativo era accaduto anche e solo qualche anno prima.
Vittoria effimera, la stagione che va da Venturi a Portoghesi, ma da allora personalità come Gregotti hanno dovuto, di necessità, integrare il loro ruolo di rassicuranti maestri assumendo toni profetici e talvolta apocalittici sulla condizione di crisi: della disciplina, delle città, delle forme espressive del mestiere di architetto. Perché questi erano i connotati salienti del nuovo corso. Per statura intellettuale e progettuale – elevatissima – avrebbe potuto essere il traghettatore da una fase storica ad un’altra della cultura architettonica, e non solo italiana. Prima e più di tutti ha intuito la complessità del progetto contemporaneo, i suoi intrecci interdisciplinari, il conseguente superamento della “semplice” unità di Samonà di architettura e urbanistica, la sua accresciuta connotazione politica, la sua conclamata laicità che rinunziava ad alcuni tradizionali dogmi del moderno più ortodosso, come la diffidenza per il capitale privato. Infine, ha dato ulteriore e denso spessore teorico all’ endiadi “complessità e contraddizione” nell’architettura di Robert Venturi sul tema del contesto.
Avrebbe potuto essere il traghettatore ma non lo è stato perché il Gregotti teorico e critico è risultato in molti casi l’antagonista del Gregotti progettista. Il magistero del primo non ha trovato corrispondenza nel controverso magistero del secondo. Massimamente, proprio sul tema del contesto per la distanza che separava le ragioni del luogo da quelle della soluzione fornita. Il lavoro che ora attende storici e critici dirà tra qualche tempo della grandezza e dei limiti della biografia di Gregotti. È accaduto negli anni con una personalità di analogo spessore come Bruno Zevi cui si riconosce l’eccezionale merito d’aver condotto – con forme imperiose, verrebbe da aggiungere – la cultura architettonica italiana nella modernità, ma anche di aver reciso per ragioni puramente ideologiche il suo legame con la tradizione più prossima di stampo modernista.
Qualcosa di analogo accadrà con Vittorio Gregotti, forse proprio sul piano della dissociazione che si registra tra teoria e prassi. Qui in Campania, a Portici e a Napoli, ci sono due testi esemplari di questa contraddizione. Il Centro di ricerche ENEA del 1978 chiude la continuità visiva e funzionale della Reggia con il litorale marino, una soluzione del tutto insensibile al tema gregottiano del contesto. La sede d’un Dipartimento di Medicina della Università Federico II a Scampia è copia conforme, almeno nella veste esterna, dell’originario edificio nato come sede della Protezione Civile dell’Italia meridionale, una soluzione confliggente con i principi del razionalismo del quale Gregotti è stato uno dei massimi interpreti. Proprio perché è stato un maestro per intere generazioni, il lavoro che ci attende deve essere privo di indulgenze.
Pasquale Belfiore