Vittorio Gregotti: la razionalità come regola, la serietà come costume, la storia come fondamento

 
 
Il numero di CASABELLA 479 dell’aprile 1982, con in copertina il mercatino e centro sociale di Sant’Anna di Palazzo di Salvatore Bisogni.

Il numero di CASABELLA 479 dell’aprile 1982, con in copertina il mercatino e centro sociale di Sant’Anna di Palazzo di Salvatore Bisogni.

 

Di fronte alla scomparsa di un maestro è la riflessione sul suo lavoro e, in particolare, sul significato e il valore che ha o può avere la sua eredità, a offrire la possibilità di neutralizzare e poi mettere a frutto il rimpianto della perdita. Non è possibile tracciare in poche battute una analitica disamina storico-critica dell’opera di un protagonista dell’architettura e della cultura italiana quale è stato Vittorio Gregotti, e della qualità dell’impegno che ha riversato sul piano teorico e operativo, nell’ambito architettonico e in quello urbanistico, nell’insegnamento come nel confronto sempre aspro con la realtà, nella costruzione della città e del territorio. Quello che è invece di certo possibile, e ci appare anzi necessario, è estrapolare quelli che sono stati i fondamenti del suo agire e riconoscerli come valori fondanti del nostro agire, che possano cioè essere assunti da parte di chi è chiamato oggi a raccogliere quella eredità - sempre che non sia così stolto e irresponsabile da dissiparla nell’oblio o nell’indifferenza - come degli imperativi preziosi.

 
 
 

Agire con razionalità. Ovvero l’obbligo per l’architetto di esercitare il suo lavoro nel nome di un logos che non si piega e invece reagisce alle derive irrazionaliste e alla spettacolarizzazione dell’architettura, ai molti nichilismi e alle seduzioni dei pensieri deboli e delle estetiche del caos, assai meno innocenti di quel che si crede, perché più il prodotto di calcolate logiche di deregulations che il frutto di autentiche riflessioni sulla natura delle cose e delle azioni umane. Obbligo, in altri termini, di restare dentro quella cultura del progetto moderno che ha sempre responsabilmente mirato a governare il caos, e non considera per niente finito il tempo per allentare il legame verso quella tradizione di pensiero che ha le sue radici nell’illuminismo e che deve restare a fondamento della cultura occidentale.

Alimentare la propria cultura. Ovvero l’obbligo per il vero architetto, come ammoniva già Vitruvio, di dare sempre conto delle proprie scelte, e non sulla base di superficiali adesioni a questa o quella tendenza o, peggio, in nome del proprio gusto personale, ma in virtù di una conoscenza profonda – la più ampia possibile – del mondo e dei suoi problemi, e ancora dei prodotti del pensiero e dell’arte. È questo ciò che rende davvero l’architetto un uomo di cultura: non solo per poter esplorare con sicurezza territori che sono al di là dell’architettura e ben più ampi di essa e che ha il dovere di conoscere, ma perché possa esercitare al meglio il suo ruolo civile di intellettuale che mette il proprio talento e i propri saperi a disposizione della comunità.

Conoscere la storia. Storia come patrimonio di saperi e di regole, e di exempla che, al di là dei contesti nei quali furono prodotti, si pongano come valori universali, e certi. Poi la storia dei luoghi che l’architettura trasforma, in una dialettica tra il riconoscimento dei suoi caratteri originari e l’appassionata prefigurazione della loro modificazione, tra le ragioni di un progresso necessario e quelle della preservazione, altrettanto necessaria, dell’identità. E infine la storia intesa come quella tradizione del moderno verso la quale Gregotti ha saputo volgere uno sguardo sempre analitico e critico, e che ha continuato – senza fanatismi, ma con il rigore dello storiografo – a indicare come la strada più affidabile affinché la prima ragion d’essere dell’architettura resti ancora il desiderio di rendere il mondo migliore, possibilmente per tutti.

In tal senso Gregotti non è per niente uno degli ultimi maestri di una cultura architettonica da consegnare ormai alla storia, ma un riferimento su cui incardinare altre storie, non ancora scritte, e che toccherà a noi scrivere.

Giovanni Menna