Un paese elitario
Ho avuto rispetto per Vittorio Gregotti.
La sua Casabella durante gli anni di studio mi sembrava una rivista utile e seria, e con Domus e Abitare faceva bene da contraltare a Spazio e Società di cui noi, gravitanti esterni satelliti intorno al Pianeta De Carlo, ci nutrivamo da eretici, che ammiravano un anarchico più o meno praticante. Ricordo un dibattito al teatro Chiabrera di Savona fra De Carlo, Gregotti e Carmassi. Noi che eravamo appesi al tono di voce di De Carlo, prima ancora che alle sue parole, potemmo sentire il rispetto che Gregotti esprimeva nei suoi confronti, salvo combatterlo nella pratica degli incarichi e nel pensieri. Per Gregotti lavorammo pure, all’inizio della nostra storia di 5+1AA (era il 1996) come studio locale. Più con Augusto Cagnardi. Grande Signore.
Ma non voglio qui portare ricordi personali.
Voglio invece parlare proprio di “signorilità” e di “élite”. Uno dei drammi del nostro Paese in questi ultimi decenni, rispetto ad altre nazioni europee, è la chiusura elitaria dentro molti settori. Il mestiere dell’architetto è, in Italia, un mestiere assolutamente elitario. Nonostante certe apparenti aperture degli anni 90, le élite del mestiere hanno pervicacemente e validamente lavorato per escludere l’ingresso alle classi sociali medie o basse. E’ banale e noioso ricordare come sia stata proprio la sinistra italiana ad aiutare le élite a mantenersi tali. Del resto non si esce dal marxismo con spirito di libertà, ma solo con cinismo.
Chi non è di elite, o fa il servitore o il giullare. Come tutti i parvenu. Oppure viene ricacciato, coperto di insulti (“invidioso, intellettuale, provinciale, accidioso”) nella provincia più arretrata. Oppure sempre in provincia (ovvero fuori Milano) si ritira in buon ordine, sottosviluppato e quasi felice, in attesa di una piccola chiamata nel Salotto Buono. Al massimo può fare come Robert De Niro in "Brasil": il terrorista dei sistemi impiantistici, nascosto nei controsoffitti e nelle pareti attrezzate. Sbucando fuori improvvisamente e raramente, sfondando un muro o una tubatura. Che è quello che fanno in molti.
Attenzione: questo accade in Italia. Non nella gran parte dei Paesi europei. Guardate il “pedigree” di affermati colleghi francesi, olandesi, danesi di oggi...Il pedigree è inciso nella pietra solo da noi.
Ecco, Vittorio Gregotti vestiva la divisa della élite, politica, culturale, professionale, sociale. Assolutamente.
Ma non si nascondeva dietro a finte idealità sociali o buoniste. Parlava di città, forma, specificità. Di costruzione. Era ciò che appariva: un intellettuale borghese. Un" Gran Borghese”. E faceva una rivista seria, metteva la faccia sui suoi progetti, insegnava e costruiva Scuole di Architettura.
E allora, proprio per questo, quel suo lavoro serio ci nutrì, nella critica, nel dubbio, di quel pane che è l’ambizione di cambiare il mondo senza cinismo, con ammirazione e spirito emulativo, del volersi migliorare, del sentirsi più bravi, più giovani, del credere che costruire possa migliorare la vita della persone, che tutti si possa sbagliare ma anche, con pazienza e dedizione, che ci si debba rimettere al tavolo di lavoro cercando nuovi compagni di viaggio. L’elite di oggi trasmette questi sentimenti di crescita e di “potenzialità” personale?
Se nel passaggio da E.N. Rogers a Gregotti si è perso qualcosa, da Gregotti ad oggi dove siamo precipitati?
Gianluca Peluffo