Omaggio disallineato a Vittorio Gregotti
Ho sempre prestato attenzione agli scritti di Vittorio Gregotti che ho avuto la fortuna di incontrare e di conoscere da quando il suo progetto emerse nel concorso per la sede dell’Università della Calabria (1972-1973) grazie all’appassionato sostegno di Joseph Rykwert e malgrado l’opposizione di Michael Browne e di Georges Candilis.
La chiarezza dei suoi principi è emblematica, così come i temi teorici da lui introdotti.
Si deve a lui se la Biennale di Venezia nel 1975 ha cominciato a porre attenzione all’Architettura, nuova sezione del Settore Arti Visive, prima con la mostra “A proposito del Mulino Stucky”, poi con altre due: un’azione vigorosa che qualche anno dopo ha portato all’avvio dell’autonomo Settore Architettura della Biennale. Nel 1979 gli si deve la nascita di “Rassegna”, una formidabile ampia serie di monografie che lo impegna per venti anni e prende avvio con un formidabile primo numero, “Recinti”. Anche a lui si deve la svolta di “Casabella”, diretta dal 1982 al 1995 dopo esserne stato fra i redattori nei primi anni ’50, con Aldo Rossi e Giancarlo De Carlo. Tre posizioni culturali forti, ma che hanno segnato strade profondamente diverse.
Quella di Vittorio Gregotti è stata quindi fra le figure sostanziali dell’architettura del secondo novecento. Non posso però annoverarlo fra i miei “maestri”: non solo per la non troppo ampia differenza di età, ma perché attratto da altri riferimenti, da altre realizzazioni, da altre tesi. Ne abbiamo parlato serenamente più volte: la scelta dell’area per la nuova Università della Calabria poneva l’esigenza di confrontarsi con una topografia ondulata, ricchissima di suggestioni spaziali, tale da distruggere le tipologie canoniche dei fabbricati universitari; lanciare percorsi orizzontali tra le alture, sovra passare biblioteche e laboratori utilizzandone le coperture, introdurre nel territorio un’immagine precipuamente urbana, ma capace di trarre spunti dalla singolarissima morfologia e di esaltarne i caratteri. Per questo, ripercorrendo tesi del Team X, lo schema di riferimento a base del concorso suggeriva edifici-percorso, non separazione edifici/infrastruttura, non similitudini tipologiche; voleva compresenza di immagini prodotte da autori diversi, ricchezze proprie di quanto deve ambire a diventare una parte della città.
Con esemplare chiarezza Gregotti affermò una posizione opposta, poi infelicemente corrosa dalla realtà. Lui stesso commentò quello che stava succedendo, prima con l’allontanamento di Tarquini Martensson -architetto di Copenaghen unico, sia pure marginalmente, ad essere coinvolto nel progetto-; poi del suo studio milanese; quindi del bolognese Enzo Zacchiroli; infine del nostro studio napoletano autore del primo intervento. Prevedendo quanto sarebbe successo, ricordo con amarezza che un giorno mi disse “così, in funzione della distanza chilometrica, la Calabria resta ai soli calabresi”. L’anno scorso, nel Convegno per i 50 anni dell’istituzione di quella Università, con Empio Malara e Augusto Cagnardi non abbiamo potuto che condividere giudizi severi sugli esiti concreti di quella avventura.
A Napoli, verso la fine degli anni ’80, Gregotti ha avuto occasione sia di proporre un intervento di rigenerazione dell’area orientale, sia di progettare per l’Italsider la riconversione dell’area di Bagnoli: proposte ambedue molto distanti a mio avviso da quanto necessario in quei luoghi. Anche anni fa, insieme nella giuria dei Premi Nazionali IN/Arch, abbiamo avuto occasione di confrontare posizioni diverse prima di trovare serene mediazioni. La diversità delle nostre visioni -insieme a quelle di Denise Scott Brown, Robert Venturi e Pietro Barucci- appare anche nelle testimonianze raccolte un paio d’anni fa da Stephanie Zeier Pilat per l’edizione italiana di Reconstructing Italy - the Ina-Casa neighborhoods of the postwar era.
Fra le sue opere che ho avuto occasione di percorrere, ho trovato positivi e stimolanti gli spazi interni del Centro di Ricerche dell’ENEA a Portici, pur se perplesso del modo in cui -a scala del paesaggio- l’intervento si oppone al sogno borbonico dell’impianto della Reggia, teso a legare mare e Vesuvio. Senza alcuna riserva invece ha apprezzato il Centro Cultural di Belém a Lisbona, progettato insieme a Manuel Salgado, potente architettura urbana.
Anche per me, attratto da posizioni diverse e che quindi ho sviluppato altre vie, Gregotti è stato un riferimento importante. La sua elevatissima riflessione teorica a volte è stata coinvolgente, sempre però oltremodo stimolante: per questo gli dobbiamo essere incondizionatamente grati.
Onore a Vittorio Gregotti.
Massimo Pica Ciamarra