Quarant'anni dopo
Sono passati quarant’anni dal terremoto che nel 1980 sconvolse la nostra Irpinia.
Quarant’anni dopo, per aprire qui una discussione nella piena consapevolezza dei lavori realizzati nel frattempo in questa terra, la terra che in tutti questi anni non ha visto un anniversario senza che ci fossero polemiche o dibattiti sulla qualità e quantità delle opere realizzate con i fondi della ricostruzione. Questa volta vorremmo lasciare da parte la polemica politica e focalizzare l’attenzione soprattutto sul lavoro che hanno svolto gli architetti negli ultimi decenni.
La discussione sulla ricostruzione in questo momento è anche argomento di attualità, considerata la grande opportunità che ci viene offerta dal Decreto Rilancio per mettere in sicurezza il patrimonio immobiliare attraverso il sisma-bonus. Questa ultima opportunità può farci recuperare le occasioni perdute o ravvedere sulle cose da correggere.
Avere consapevolezza della nostra storia ci impone di seguire preferibilmente due indirizzi:
il primo con la messa in sicurezza dell’immenso patrimonio immobiliare del nostro paese, tenendo conto che viviamo in un paese ad alto rischio sismico, le cui calamità costano allo Stato circa 3,5 miliardi all’anno, una somma che si potrebbe ridurre sensibilmente con una maggiore sicurezza delle strutture; il secondo con la qualità degli interventi da realizzare, nella consapevolezza di abitare un paese ricco di storia e di cultura architettonica e ambientale, come pochi altri paesi al mondo.
Questi due indirizzi dovrebbero essere il modello virtuoso da seguire nelle emergenze post-terremoto, attraverso strategie d’intervento programmato. Il terremoto dell’Irpinia potrebbe essere preso a modello per aprire una discussione internazionale, semmai implementando la stessa Carta del restauro. Demolire interi paesi per poi ricostruirli altrove, così come è stato fatto in alcuni paesi del Cratere, è stata una esperienza irripetibile o da riproporre in altre emergenze?
In passato abbiamo avuto splendidi esempi in tal senso, con città ricostruite più belle di prima, in sincronia e rispetto dell’influenza artistica dominante. Oggi l’esperienza dell’Irpinia ci dice che forse sarebbe stato meglio recuperare attraverso la conservazione degli spazi, dei vuoti e dei pieni, fatti di proporzioni spontanee, ma in armonia ed equilibrio con i suoi abitanti. E’ forse questo il motivo per cui si sta tentando di farlo adesso con i fondi europei.
Oggi partiamo da presupposti diversi. Quarant’anni fa l’Irpinia del Cratere era un territorio di difficile accesso, lontano dalle grandi reti di comunicazione ma, allo stesso tempo, ricco di un patrimonio culturale e di tradizioni radicate. La grande scossa è stata la recisione con il passato. L’isolamento dei primi giorni dopo il terremoto dal resto del Paese e la mancanza dei soccorsi hanno costretto le popolazioni di quei luoghi a cancellare quanto prima la memoria della tragedia. Rimuovere le macerie significava lasciarsi alle spalle secoli di isolamento e distacco dalla modernità. Però inseguire quella modernità fasulla, senza pregio, impersonale e senza caratteri distintivi che, solo oggi possiamo dirlo, è stato l’errore più grave che si potesse commettere. Fece meglio Burri a Gibellina quando nel suo Grande Cretto cementificò tutte le macerie del paese distrutto dal terremoto del 1968, tumulando le tracce di quella memoria lasciate sul posto.
Oggi abbiamo capito che forse quelle macerie non andavano rimosse e sarebbe stato sicuramente meglio un restauro conservativo o anche storico, rispetto a nuovi quartieri della falsa modernità, che hanno omologato il modello rurale irpino a quello dei quartieri di periferie cittadine con gli stessi usi e consumi.
La discussione continua anche quest’anno!
Erminio Petecca
Presidente del Consiglio dell’Ordine degli Architetti di Avellino