Repetita non iuvant
“Tutti coloro che dimenticano il loro passato,
sono condannati a riviverlo.”
PRIMO LEVI
In effetti dovrebbe essere proprio così, ‘le cose ripetute giovano’, ovvero aiutano a non commettere più gli stessi errori o, quanto meno, a migliorare la pratica, a far meglio di come le abbiamo affrontate precedentemente. La sentenza latina ‘repetita iuvant’ ci porta alle riflessioni del grande filosofo danese Søren Kierkegaard. Egli scrive: «Gjentagelse er kun tænkelig af hvad der har været før», (trad. italiana: “Ripetizione/Ripresa è pensabile solo di ciò che è stato prima”, ovvero di ciò che è già stato). Nel caso specifico dell’organizzazione e della conseguente ricostruzione irpina, a seguito del terremoto del 1980, suona come un campanello di allarme, una domanda che non possiamo fare a meno di porci a distanza di quarant’anni da quel catastrofico evento e alla quale abbiamo attribuito un valore negativo… ‘repetita non iuvant’.
Sono ancora impresse nei ricordi le immagini della distruzione e molti della mia generazione ricorderanno i mesi successivi al sisma dove la gran parte del patrimonio culturale dell’Irpinia fu ingabbiato da impalcature metalliche e reticoli di tubi per impedirne il crollo. Dei vari terremoti irpini è stato detto, forse, tutto o quasi. Dubito molto che si possano ancora oggi avanzare nuove proposte al riguardo o formulare nuove valutazioni critiche. L’Italia, si sa, è un paese frequentemente soggetto a fenomeni tellurici ciclici e le rovine, spesso, mettono in risalto tutti i problemi che esistono in un dato territorio. Osservati su un lungo periodo, consentono di far luce sulle conseguenze che tali eventi straordinari comportano, in termini di trasformazioni dei luoghi e di rapporto fra l’abitare e i caratteri dell’ambiente naturale in cui questi luoghi sono collocati.
Nonostante la frequenza dei fenomeni catastrofici, il Paese non è riuscito a formare una coscienza sul tema e continua a procedere caso per caso, in maniera disordinata e confusa.
Ciò è accaduto anche in Irpinia, dove si è verificato il ripresentarsi di distruzioni di parti o di interi patrimoni abitativi. Questi eventi avrebbero potuto consentire alla collettività e agli Enti preposti alla ricostruzione una corretta individuazione dei problemi, per stabilire una giusta gerarchizzazione in termini di priorità e per trovare le migliori soluzioni possibili ma ciò non è accaduto.
In alcuni paesi, forgiati da pietre e memorie, la parte più antica è ormai scomparsa e al suo posto sono apparsi manufatti nuovi ricostruiti con altre tipologie, pensati in spazi dilatati per una popolazione ben maggiore rispetto a quella presente. Oggi, gli abitanti di quei borghi trovano una certa difficoltà a identificarsi e, quindi, a vivere questa nuova impostazione urbana. La storia delle distruzioni sismiche in provincia di Avellino è una storia piena di difficoltà e di tragedie, che va interpretata con nuove categorie di analisi. Da un lato, possiamo mettere in luce l’indubbia capacità di sopportazione e di tenacia della popolazione irpina, la sua forza di ripresa e di sopravvivenza, ma, dall’altro, il succedersi delle distruzioni sismiche nei secoli mostra un rapporto culturale distorto con il futuro, che non sembra modificato in modo significativo nel tempo, quasi un’incapacità da parte delle istituzioni e della collettività di prendere coscienza dei possibili danni futuri prima che essi accadano di nuovo.
Uno dei fattori di maggiore pericolosità è il rischio della perdita d’identità successiva al terremoto. Al di là delle inadeguatezze strutturali, si può arrivare fino alla perdita dell’identità della persona, ovvero ad un senso di smarrimento verso quei luoghi che non si sentono più come propri. La frase più ricorrente che si ascolta dalla voce di chi ha vissuto quei momenti terribili è questa: “Abbiamo una casa, ma non abbiamo più il paese!” In quest’ottica il paese è considerato come l’essenza primaria del composito e multiforme insieme di memorie e di tradizioni popolari radicate in quel dato posto che determina il fattore identitario dell’individuo. I terremoti, si sa, sono una manifestazione inevitabile della vita della Terra, ci sono stati e ci saranno sempre. E la storia delle distruzioni sismiche in provincia di Avellino è una storia ricca di difficoltà e di tragedie, che va interpretata con nuove categorie di analisi, con nuove idee: occorre cambiare passo, sforzarsi di ricreare quel senso di appartenenza verso i luoghi intorno ai quali ricostruire il tessuto sociale (usi, costumi, tradizioni), rinforzando il più possibile le trame urbane mostruosamente dilatate dai vari interventi post-sismici e recuperando la memoria intorno alla quale l’intera comunità ha costruito, nei secoli, la propria identità.
Oggi, a distanza di quarant’anni, ci chiediamo dalle pagine della Regione Campania, cosa abbiamo appreso da quelle lezioni di disagi e di disperazione intrise di sogni e di speranze? Cosa? Parti importanti del nostro territorio sono divenuti dei luoghi vuoti, brandelli di territorio smarriti, svuotati di socialità, vero cuore pulsante della identità paesistica. Nelle ultime ricostruzioni post-terremoto, non solo in Irpinia ma in tutto il Paese, l’unica caratteristica che ha accomunato le diverse vicende è la certezza assoluta che nulla più fosse come prima, le esperienze precedenti, le raccomandazioni, gli ammaestramenti, inezie. Ciò, a nostro avviso, è dovuto a molteplici fattori, in primis la mancanza totale di un piano d’intervento, pensato e ragionato in maniera consapevole ma, vivaddio, prima che avvenga la catastrofe, molto prima, non durante o dopo, nel mentre si raccolgono le macerie e si piangono i morti ancora col volto pieno di polvere. È una ricetta semplice, dettata dalla ragione, il definire con serenità protocolli d’intervento e strategie più idonee al fine di ridurre i rischi di vulnerabilità urbana, ma in periodi di pace e non nel caos dell’emergenza.
Occorre ben tener presente di:
- stabilire una chiara e precisa catena di comando capace di far dialogare decisori e diretti interessati, tema spinoso della concertazione fra i vari livelli istituzionali, che sul nostro territorio ha offerto, ahimè, pochi esempi virtuosi per fare rete;
- semplificare e ridurre la normativa che, come è noto, rappresenta in caso di catastrofi lo strumento di operatività concreta per poter intervenire e risolvere i tanti problemi che assillano una popolazione in lutto, smarrita, disorientata, lacerata;
- riflettere su programmi finalizzati all’esecuzione di specifiche azioni di recupero per la riqualificazione del tessuto urbano facendo dialogare tra loro la proprietà pubblica e quella privata per il bene comune;
- riservare una parte consistente dei fondi destinati alla ricostruzione ai numerosi imprevisti che una situazione emergenziale comporta.
La lista di consigli potrebbe essere infinita, ma poiché non siamo chiamati a farla, ci chiediamo quanto si stia facendo oggi e non domani per la prevenzione. Cosa stanno producendo i vari Osservatori e gli uffici della Protezione Civile? Siamo preparati ad un eventuale nuovo evento tellurico? Alla luce delle esperienze passate, abbiamo pensato ad un modello d’intervento flessibile che ci permetta una maggiore serenità, invece di avviarci di nuovo impreparati e rassegnati verso una nuova emergenza? Come evitare gli errori del passato? In che misura saremo capaci di salvaguardare l’identità della nostra bella Irpinia, o meglio di quello che resta dopo i tanti terremoti subiti, evitando l’ennesimo spopolamento conseguente ad ogni evento catastrofico? Mi chiedo, tra i tanti interrogativi, se saremo capaci di proteggere le 78 emergenze castellari irpine, nostri gioielli di famiglia, che tanti territori europei ci invidiano? Stiamo ancora percorrendo la strada della miopia e dell’egocentrismo politico di qualche amministratore, degli errori urbanistici e ambientali, in attesa di passive e assistenzialistiche forme di aiuto che hanno generato frettolosi e mediocri interventi emergenziali post-terremoto? Onestamente spero proprio di no! Mi auguro che, in qualche parte della nostra Regione o Provincia, ci sia qualcuno che abbia a cuore il nostro territorio e sappia riflettere sugli errori del passato tenendo conto delle esperienze precedenti. Avrà messo mano a normative e a piani di ricostruzione fino a questo momento incapaci di dare risposte chiare e immediate a problemi complessi?
Per capire che cosa possiamo aspettarci nel caso malaugurato di un prossimo evento tellurico, basta andare indietro nel tempo e analizzare quanto è già accaduto nei secoli precedenti, a seguito dei terremoti del 1930, 1962 e 1980. È una prospettiva pessimistica, ma che potrebbe ripetersi. In questa situazione, tutti noi abbiamo, a mio parere, un ruolo non secondario, rispetto a quanto, ci auguriamo, stanno facendo gli addetti ai lavori, ossia svolgere un ruolo di riflessione e di analisi che potrebbe contribuire a formare una nuova cultura rispetto agli eventi sismici che si ripetono ciclicamente. Restituire dignità e memoria ad un patrimonio interno, ricco di saperi e tradizioni, conoscere mondi periferici e mettere in evidenza oltre ai segni materiali che già esistono e sono tanti anche quelli immateriali è quello l’obiettivo primario di noi tutti per dare una speranza alle generazioni future. Avere coscienza dei luoghi, conoscerli per apprezzarli a pieno significa anche rendersi conto che l’Italia delle aree interne, quell’Italia emarginata non è soltanto parte residuale, ma bensì terreno forse decisivo per vincere le sfide dei prossimi decenni o sarà troppo tardi.
Non ci resta che augurarsi un recupero di lucidità da parte di tutti, in fretta, poiché sono trascorsi già quarant’anni.
Giovanni Coppola