“Discepolo: una nuova legge urbanistica aiuta anche le Regioni, un errore farla soltanto sulla rigenerazione urbana”

Giorgio Santilli
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24.06.2024


Nel settore dell’urbanistica il rapporto fra Stato e Regioni è tesissimo almeno da quando la Toscana varò la legge urbanistica numero 5 del 1995 che per prima introdusse lo sdoppiamento del Prg in piano strutturale e operativo, a dispetto di una legislazione statale ferma alla rigidità della legge urbanistica del 1942 e al decreto ministeriale del 1968 sugli standard. Di questo rapporto, che si aggravò con la riforma del titolo V, parliamo con Bruno Discepolo, architetto e urbanista, assessore all’Urbanistica della Regione Campania, padre della recente legge urbanistica regionale che inaugura – secondo le sue parole – “la terza generazione di leggi regionali, imponendo per la prima volta in termini rigidi e rigorosi il principio del contrasto al consumo del suolo”. Parleremo anche di questa legge, ma lo spunto principale per questo colloquio nasce dal fatto che la Regione Campania ha il coordinamento della Conferenza delle Regioni nella materia del governo del territorio. Ruolo in cui si alternano lo stesso Discepolo per la materia più strettamente urbanistica e il vicepresidente della Campania, Fulvio Bonavitacola.

Assessore Discepolo, a quando fa risalire le difficoltà attuali del rapporto Stato-Regioni?
La situazione si aggrava quando viene approvata la modifica al titolo V della Costituzione, che ha inserito il governo del territorio fra le materie a legislazione concorrente. Da allora ci sono aspetti, nel rapporto fra Stato e Regioni, che non sono mai stati chiariti mentre un giudice costituzionale buonista ha sentenziato che si sarebbe dovuto confidare nella leale collaborazione. Questa leale collaborazione si è tradotta, nella realtà, in una costante minaccia di impugnativa di leggi regionali da parte dello Stato, mentre la confusione di ruoli è rimasta e potremmo addirittura dire che si è accresciuta. La materia concorrente ha bisogno, infatti, della fissazione per legge da parte dello Stato di alcuni principi fondamentali cui le leggi regionali dovrebbero attenersi.

La legge statale non è mai arrivata. Che effetto ha prodotto questo vuoto?
Si è prodotta un’asimmetria perché avremmo dovuto avere prima la legge dello Stato con i principi fondamentali e, a seguire, le leggi regionali. La legge statale di principi non è mai stata approvata e l’unica legge statale che abbiamo è ancora quella del 1942, che concepisce lo sviluppo come espansione territoriale e non è certamente adatta per dettare i principi fondamentali che servono oggi alle leggi regionali. Quindi le Regioni hanno legiferato, hanno occupato lo spazio lasciato vuoto dallo Stato, sobbarcandosi, a dire la verità, l’onere di ammodernare la legislazione in materia del governo del territorio. Oggi siamo alla terza generazione di leggi regionali e in questa continua evoluzione, lo Stato non ha mai esercitato un ruolo positivo. C’è stato solo in negativo, per impugnare le leggi regionali.

Si può ricostruire oggi un contesto fisiologico?
Oggi è un’operazione molto difficile perché l’approvazione di una legge statale di principi potrebbe portare a una retrocessione delle leggi regionali. Questo produce ritrosie e gelosie di Regioni che hanno fatto leggi, spesso buone leggi, e potrebbero arroccarsi su una posizione che è: io non retrocedo e non cedo sovranità sul mio territorio. Oggi siamo in uno stallo oggettivo.

Vede interesse o consapevolezza dello Stato a uscire da questo stallo?
Constato il paradosso di un Pnrr con cui l’Italia si è impegnata a riformare a fondo il proprio quadro legislativo, prevedendo ben 64 leggi fondamentali nei settori più disparati. Ma la questione di una legge nazionale per il governo del territorio non è stata neanche posta, non è venuta in mente a nessuno. Questo rafforza una sorta di pretesa di autosufficienza delle Regioni.

Lo Stato a volte risulta essere un’entità astratta. Le responsabilità di questo vuoto di azione statale non è dei governi e dei partiti che siedono in Parlamento e questa riforma non l’hanno fatta?
Non faccio nessuno sconto né ai governi, come dicevo prima parlando del Pnrr, né ai partiti che non hanno considerato la riforma della legge urbanistica una priorità.

Non hanno forse ragione le Regioni a voler fare da sole?
No. Oggi sono cambiati tutti i paradigmi del governo del territorio e dell’urbanistica, siamo di fronte a un mutamento radicale che bisogna affrontare con strumenti e politiche adeguati, anzitutto statali.

Quali sono le nuove priorità da affrontare?
Le tre priorità fondamentali, da cui oggi nessuno può sfuggire, né Stato né Regioni, sono il contrasto al consumo del suolo, la rigenerazione urbana e l’azione di riduzione della fragilità del territorio. Sono sfide enormi e non abbiamo nessuno strumento unitario per affrontarle. Da qui nasce il mio appello alle Regioni a essere più generose e anche più consapevoli che una legge dello Stato non è soltanto una sottrazione di poteri o di libertà alle Regioni, ma è necessaria per dare una visione sistemica all’azione pubblica, superando la situazione che vede in campo decine di proposte di legge slegate da questa visione. Soprattutto, si creerebbe finalmente un dialogo continuo fra una legge statale e le leggi regionali, superando questo squilibrio asimmetrico da cui le Regioni hanno forse un vantaggio immediato, ma che le lasceranno sole e deboli quando i nodi che abbiamo detto verranno al pettine.

Cosa dovrebbe prevedere una legge statale?
La legge statale dovrebbe anzitutto trainare una nuova generazione di leggi regionali che adottino e attuino in modo rigoroso il principio di effettivo contrasto al consumo di suolo. Il consumo del suolo tutti dicono di volerlo contrastare ma poi ci troviamo spesso in presenza di documenti ideologici che non producono effetti pratici o, peggio, di leggi regionali che affermano il principio e poi, all’atto pratico, vanno in direzione opposta.

Che altro dovrebbe contenere una legge statale?
La madre di tutte le battaglie, superare cioè gli standard urbanistici del 1968, uno strumento spuntato, insufficiente e addirittura in contrasto con l’obiettivo di impedire consumo del suolo. Prendiamo lo standard dei parcheggi: tutti questi posti auto non servono se cambiamo la mobilità e vogliamo sempre meno auto private nelle città. Carlo Ratti sta facendo un lavoro su come riconvertire tutti i parcheggi che ci sono a New York e noi ancora imponiamo posti auto? Bisogna dire basta a standard urbanistici disegnati sulle nostre carte urbanistiche per poter dire che formalmente quel comune ha rispettato la legge, anche se poi il 90% di questi standard sono inattuati. Dobbiamo sostituirli con servizi eco-sistemici che funzionino davvero. La nostra sfida deve essere di acquisire una capacità prestazionale fornendo alle aree che ci interessano servizi che funzionano e rispondano alle esigenze effettive dei cittadini.

Ci fa un esempio?
Nelle aree urbane sono ormai un’emergenza le isole di calore, il nostro obiettivo è dunque dare un contributo concreto per abbassare le temperature. A che ci servono i posti auto? Piuttosto dobbiamo piantare tanti alberi.

Poi bisogna favorire la rigenerazione urbana. A proposito, è favorevole a una legge statale sulla rigenerazione urbana che al momento è chiesta a gran voce dai partiti politici e dalle forze economiche e professionali?
Chiediamoci anzitutto se è utile a raggiungere l’obiettivo e come uscirebbe una legge di quel tipo. Ci sono 13 proposte di legge in Parlamento. Come Regioni abbiamo espresso una posizione critica. Non fa ordine, non rivede la legge urbanistica e introduce un ulteriore livello con un piano di rigenerazione urbana. È un errore. Oggi la rigenerazione urbana deve essere la priorità all’interno di una nuova tipologia di piano urbanistico, semplificato. La rigenerazione urbana deve essere il centro di una visione complessiva della città piuttosto che confinarsi in un nuovo piano settoriale.

C’è, nelle proposte di legge, il tema del fondo statale che dovrebbe favorire le azioni e i progetti di rigenerazione urbana.
Per far la rigenerazione urbana di cui abbiamo bisogno servirà un’enorme quantità di risorse. Pensiamo davvero di farlo con un fondo statale di poche decine di milioni che sarà distribuito un po’ qui e un po’ lì, favorendo quel comune o quell’altro, chissà con quale logica? Attenzione, perché senza una reale capacità di finanziamento di questi interventi, resteremo fermi. E questa massa enorme di risorse potremo averla a disposizione soltanto se mettiamo in moto un nuovo livello di partnership pubblico-privato. Pensare che lo Stato finanzi la rigenerazione urbana in tutte le città d’Italia è un’utopia o una bestialità. Significa non aver capito qual è il problema.

Qual è il problema?
La rigenerazione urbana costa, non si fa gratis. Costruire nel costruito costa più che costruire il nuovo, non si può pensare che lo Stato ci metta i soldi. Dobbiamo favorire un processo in cui diventino protagonisti proprietari, investitori. Lo Stato deve partecipare con incentivi che saranno comunque limitati. Dobbiamo utilizzare premialità di superfici e volumi, anche per favorire un migliore utilizzo delle volumetrie all’interno di lotti già costruiti. Bisogna semplificare questi processi.

Già la semplificazione, altro nodo da sciogliere. C’è qualche principio rivoluzionario che può davvero cambiare i tempi dell’urbanistica italiana?
C’è il principio caro al professor Lallo Barbieri, che abbiamo recepito nelle legge Campania ed è anche in un’altra legge regionale innovativa, quella delle Marche, che vede come consulente lo stesso Barbieri. Bisogna sostituire il principio di conformità di un piano rispetto a un livello superiore con il principio della coerenza. Questo alleggerisce le verifiche e accorcia molto i tempi.

Oltre a questo, quali sono gli altri principi della legge Campania che ne fanno un modello per la terza generazione di leggi regionali?
Abbiamo impostato con gli amici dell’INU questo lavoro partendo dalla domanda sulla forma del piano: quale può essere un piano adeguato ai tempi? La nostra risposta, contenuta nella legge, è un piano strutturale unico che prenda atto della situazione delle zone su cui incidono i due obiettivi fondamentali: la rigenerazione nelle città e il contrasto al consumo del suolo nelle aree agricole. Questo è l’unico piano strutturale, da fare con semplicità. A questo si affianca un programma operativo che declina come raggiungere i tre obiettivi della semplificazione del processo di pianificazione, del contrasto al consumo di suolo e della rigenerazione urbana.

Dove vuole arrivare Ia semplificazione?
Il nostro obiettivo oggi è favorire una stagione di approvazione di strumenti urbanistici, partendo da una situazione drammatica. A venti anni dalla precedente legge regionale, il 50% dei comuni della Campania non si sono ancora dotati del Puc: alcuni hanno i vecchi Prg, altri addirittura programmi di fabbricazione. A volte la causa è nella mancanza di responsabilità degli amministratori, altre volte c’è una difficoltà oggettiva: con i processi attuali servono almeno dieci anni per approvare un piano, senza contare poi che il cambio di amministrazione spesso porta all’abbandono dello strumento o a un cambiamento profondo che ne allunga i tempi ulteriormente.

Per il consumo del suolo che prevedete?
Noi abbiamo fatto la legge con il principio più rigoroso e più rigido, suddividendo in territorio urbanizzato e rurale e, all’interno della città, suddividendo in città storica, città consolidata e città di margine. Nel territorio rurale non è ammesso da subito consumo di suolo, senza periodo transitorio.

Per la rigenerazione?
Concediamo premi volumetrici del 20% che sono quelli ormai consolidati da venti anni per la ristrutturazione di immobili che presentino prestazioni energetiche di un certo livello. Questo premio può crescere a determinate condizioni e arrivare fino al 35% nel caso di demolizione e ricostruzione quando si raggiungono prestazioni energetiche molto elevate. Inoltre abbiamo definito dieci condizioni i cui di default è esclusa l’applicabilità dei premi, come per esempio immobili localizzati nei centri storici o sottoposti a vincoli paesaggistici o ancora che presentino problemi di legittimità.

Che pensa del DL salva-casa di  Salvini?
Avevamo partecipato come Regioni alla commissione ministeriale per la riforma del testo unico dell’edilizia privata, il 380/2001, che si porta dietro la riforma del decreto ministeriale 1444/1968 sugli standard urbanistici. Questo lavoro è stato sospeso e non è ricominciato con il nuovo governo. Poi abbiamo appreso la notizia che si era formato un tavolo che lavorava a un piano casa. Noi siamo ovviamente interessati a una politica della casa, ma si sono dimenticati di convocare a questo tavolo le Regioni che hanno dalla Costituzione la competenza esclusiva in materie di politica della casa. Poi si è abbandonato il piano casa e si è deciso di fare il decreto salva-casa, con un intervento surrettizio e totalmente privo di una visione organica. Nel decreto ci sono anche cose utili come il superamento del principio totalmente sbagliato della doppia conformità, ma è la montagna che ha partorito il topolino, un provvedimento che sfiora competenze vicine a quelle dell’urbanistica ma risponde a un’esigenza politica più che al lavoro organico che servirebbe.

Ironizza sulla dimenticanza di convocare le Regioni.
Siamo in una fase schizofrenica. Non c’è mai stato rapporto più squilibrato fra ministero delle Infrastrutture e Regioni che da quando al MIT siede il segretario della Lega, il partito che dice di voler dare più poteri alle Regioni ma poi sceglie di centralizzare tutto, sapendo di non poterlo fare. Questo non vale solo per il ministro Salvini, vale per tutto il governo: abbiamo molti esempi, dalle residenze per gli anziani a tutte le iniziative del ministro Fitto, a partire dalle Zes, e a molto altro, l’elenco sarebbe lungo.

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