«Ecco l’antidoto contro il tempo immobile dell’attesa»

Davide Cerbone
Nagorà
16.06.2023


Meglio che niente, meglio che mai. Contro le incrostazioni di un tempo incompiuto che ingessa i sogni fino a sgretolarli, può il pragmatismo dell’ora e subito. O meglio, del «per ora, ma subito». Così, si può decidere di aprire una parentesi nella sterile alternanza di slanci e frenate, di proposte e di inerzie, di infuocati dibattiti e profondi silenzi che punteggiano certe storie infinite e infinitamente avvilenti, assegnando un destino a luoghi e edifici che altrimenti sarebbero condannati chissà per quanto ancora all’oblio, alla decadenza, all’inesistenza.

Con gli usi transitori non si smette di sperare che la promessa più alta venga mantenuta, ma si sceglie intanto di navigare a vista, sostituendo progetti ambiziosi proiettati in un futuribile che abita la dimensione dell’immaginario con aspirazioni prêt-à-porter dalla fattibilità più concreta. Soluzioni che, mentre si studiano le prospettive di domani e dopodomani, mentre il tempo si dilata, mentre invecchiano le speranze e con quelle le persone, rispondono alle domande di oggi.

Bruno Discepolo, apprezzato urbanista e accademico, dal 2018 titolare della delega all’Urbanistica in seno alla giunta regionale della Campania, spiega perché la Regione ha recepito nella legge 13/2022 in materia di “Disposizioni in materia di semplificazione edilizia, di rigenerazione urbana e per la riqualificazione del patrimonio edilizio esistente" un orientamento che permette (e promette) di sottrarre pezzi del patrimonio collettivo alla condanna del “nonsipotismo”.

Da Ovest a Est, passando per le cattedrali desolate del centro come il Real Albergo dei Poveri e la stazione Bayard, il Mario Argento e l’ex Ospedale militare, sono molti i progetti annunciati a più riprese e mai realizzati. Quella degli usi transitori può essere la via per uscire dall’incompiutezza?
«Si tratta di una conquista recente che rende più agevole il fatto di immaginare il nostro rapporto con il patrimonio che ereditiamo e ci fornisce una chiave in più per confrontarci con una serie di temi. Oggi abbiamo un’arma in più che ci consente di non attendere inermi, utilizzando gli spazi senza per questo pregiudicare un’idea di futuro più sistematizzata o più complessa. Attenzione, però: questo strumento non è risolutivo di per sé di un tema che resta sullo sfondo: vale a dire, la nostra capacità di individuare le possibili destinazioni d’uso e la migliore valorizzazione di parti di città o di immobili. Certamente questa è un’opportunità per evitare che il tempo diventi il tempo immobile dell’attesa, scongiurando un errore molto grande che porta con sé molte conseguenze negative che vanno dal degrado di un posto che resta per molto tempo inutilizzato – basti pensare alla celebre teoria delle finestre rotte - alle conseguenze simboliche, di identificazione con un luogo, per cui si rischia di cristallizzare un’idea di abbandono, di fallimento, di perdita di un bene condiviso che rischia di pesare sulla coscienza collettiva di una comunità e nel suo riconoscersi in quel degrado».

In che cosa consiste e come si attua concretamente l’istituto dell’uso temporaneo?
«La prima riflessione da fare è che correttamente oggi si comincia di nuovo a costruire una relazione tra le questioni che riguardano l’urbanistica, e quindi le trasformazioni del territorio, e il concetto di tempo. Si tratta di una dimensione essenziale per comprendere i modi di utilizzare e vivere lo spazio, andando oltre una modalità tradizionale che è quella di riferirsi alle questioni delle città soltanto nella dimensione spaziale. Quella temporale può essere affrontata da più punti di vista, considerando che gli spazi e il loro destino sono anche funzione del tempo. Questi, infatti, si possono vivere a seconda della stagione o della giornata in un modo o nell’altro, prevedendo una destinazione in un determinato periodo e un’altra in un periodo diverso, che può essere anche limitato ad una sola giornata. Penso allo stadio che, finito il campionato di calcio, si apre ad uno spettacolo o a un evento. C’è un uso della città che è relativo alla sincronizzazione con i cicli temporali delle persone, per cui fino a pochi anni fa sarebbe stato inimmaginabile il fatto di trovare un supermercato aperto di notte o di domenica. Esistono in questo senso studi interessanti sulla possibilità che la città possa meglio regolarsi per non far coincidere orari di ingresso e uscita tra scuole, fabbriche e uffici per migliorare la mobilità. Con gli usi temporanei si afferma una visione per cui gli spazi sono anche funzione dei tempi, che non sono solo il tradizionale ciclo giorno/notte, ma anche momenti della giornata, singole giornate, stagioni o periodi. Accanto a questo, c’è un’idea di tempo di lunga durata per cui un immobile che vive magari da secoli assume una funzione sì temporanea, ma di più lungo periodo. Ancora, il temporaneo può essere riferito al ciclo di vita di un immobile. Da un po’ di tempo c’è un’attenzione al tema, con corsi universitari e dibattiti, per cui si comincia ad inserire questa variabile del tempo all’interno del ragionamento su come vivere le città. È un’acquisizione recente, ma a mio avviso molto importante. La temporaneità nella ridefinizione delle funzioni di un edificio apre uno squarcio che fa riferimento a un’urbanistica più flessibile e dinamica che si deve misurare con il metabolismo complessivo di un organismo urbano. In luogo di un’idea immanente per cui si immagina una soluzione definitiva per parti di città, si considerano approcci che portano a modificare con molta più facilità anche le regole dei piani urbanistici».

La riattivazione temporanea di spazi o edifici sottoutilizzati o non utilizzati offre anche la possibilità di sperimentare soluzioni inedite per verificare la loro efficacia?
«Certo, questa è una chiave, una valenza. Con un uso transitorio si può cominciare a verificare se alla prova dei fatti certe ipotesi funzionano. All’idea di transitorietà è molto legato, se non il concetto estremo di autogestione, quello di una partecipazione di cittadini o di soggetti organizzati che in una fase transitoria che non ha le difficoltà tipiche di una ridefinizione complessiva funzionale possono collaborare a identificare e a gestire le migliori soluzioni per un nuovo ciclo di vita».

Quali caratteristiche hanno gli spazi e gli edifici candidati a beneficiare di questa soluzione?
«Noi abbiamo un grandissimo patrimonio di immobili e di aree che hanno quasi sicuramente perso la funzione con la quale sono nati e hanno esercitato un loro ruolo all’interno del contesto urbano. Vengono naturalmente in mente spazi industriali con tutto ciò che ha interessato la trasformazione di un settore manifatturiero e di industria pesante che sono quasi scomparse… In quei casi, ci sono grandi aree a disposizione. Lo stesso vale per le zone militari: aree logistiche, funzionali, acquartieramenti. Spazi enormi che si sono liberati all’interno delle nostre città. Lo stesso vale per le aree ferroviarie: oggi non c’è bisogno di spazi di quelle dimensioni… Guardando le cartografie si ha maggiore contezza di questa immensa disponibilità di spazi vuoti. E paradossalmente stiamo cominciando a mettere in discussione spazi che abbiamo sempre immaginato come fondamentali quali le scuole. Purtroppo la popolazione studentesca diminuisce e libera interi plessi che non riescono più a funzionare autonomamente. Questo dimostra che le città non sono immobili, cambiano ogni minuto sotto i nostri occhi in un processo continuo che è il rapporto tra un luogo e i suoi abitanti. Nelle dinamiche sociali, culturali, produttive gli spazi cambiano continuamente e ci pongono continuamente una domanda su come riciclarsi e come organizzarsi rispetto alle nuove esigenze».

Quindi di spazio libero ce n’è. Forse anche troppo?
«Sì, ma spesso non riusciamo a far incrociare è la domanda e l’offerta. Si arriva al paradosso che abbiamo grandi spazi inutilizzati ma non sappiamo dove mettere una …. Ne cito due su tutti: gli studentati, necessari per attrarre o per non far andare via i nostri fuori sede, dopo anni in cui questo tema non è stato mai al centro dell’attenzione. C’è chi ha proposto di utilizzare le caserme, senza capire che oggi i livelli prestazionali di civiltà dell’abitare sono completamente cambiati. Servono luoghi decorosi e confortevoli per i ragazzi. L’altro esempio riguarda la biblioteca dell’Istituto per gli Studi filosofici. Per anni si è cercato un luogo dove mettere i libri di Marotta che stanno in un deposito quasi a marcire e noi con il patrimonio immobiliare che abbiamo a disposizione non siamo riusciti a risolvere il problema».

Si risolverà?
«Lentamente si sta risolvendo, poiché la Regione ha acquistato un immobile a Santa Maria La Nova che aspetta di essere completato. Intanto saranno passati non so quanti anni: la speranza è che questi volumi siano ancora integri».

In una città che eleva a sistema la precarietà, quello che nasce come provvisorio finisce molte volte per diventare definitivo. Non esiste il pericolo che lo strumento dell’uso transitorio possa aprire al rischio di compromessi al ribasso?
«Questo sicuramente è un rischio, è l’altra faccia della medaglia. Di certo assistere all’abbandono di aree e di immobili non fa piacere e questo percorso che abbiamo delineato può essere virtuoso per tanti aspetti. Ma è chiaro che questa soluzione non può essere alternativa ad una ridefinizione di funzione e di assetti e non può essere sostitutiva della responsabilità di assumere le decisioni e di lavorare contemporaneamente ad una definizione sistematizzata di una nuova destinazione».

In una società dominata in lungo e in largo dalle categorie della fluidità e della caducità, la destinazione temporanea di un bene può essere la via di uscita dai vicoli ciechi?
«Noi quello che potevamo fare lo abbiamo fatto con una legge per cui, sulla scorta di una nuova sensibilità che si va affermando sull’introduzione della variabile temporale, che comincia ad avere un suo ruolo nel funzionamento delle città, le amministrazioni comunali hanno uno strumento in più per mettere in atto queste politiche. Ovviamente, ragioniamo su tutta la Campania, ma so che il Comune di Napoli sta tentando la strada degli usi temporanei su Bagnoli, anche per uscire da quella idea che si è consolidata di impossibilità e di immobilità che contrassegna un’area della nostra città».

Tra gli immobili della Regione ne avete già individuato qualcuno per avviare questa nuova esperienza?
«Non disponiamo di molti beni immobili, ma abbiamo fatto un ragionamento importante per gli studentati. Un anno fa abbiamo fatto un lavoro di grandissimo valore chiamando a raccolta 7 università della Campania e l’Adisu, la nostra agenzia per il diritto allo studio, abbiamo lavorato intensamente e insieme abbiamo firmato un protocollo, presentando al Ministero… come sistema regionale 9 progetti di studentati per accedere al bando della legge 338 (la Legge n. 338/2000 prevede il cofinanziamento da parte del Miur della realizzazione di alloggi e residenze per studenti universitari, ndr). Tra questi, ci sono Casa Miranda, il vecchio studentato abbandonato da 30 anni, e l’Ostello della gioventù, a Mergellina, di proprietà della Regione, chiuso alcuni anni fa. Infine, abbiamo individuato un intero stabile abbandonato dal terremoto che si trova dentro l’insula di Santa Chiara. Lo abbiamo chiesto in gestione al Ministero degli Interni, che tramite il Fec, il Fondo edifici di culto, è proprietario dell’intero complesso di Santa Chiara. In 15 giorni abbiamo avuto la lettera di assegnazione dell’immobile, ora stiamo aspettando di sapere se i progetti sono stati finanziati: sarebbe già una piccola rivoluzione per Napoli».



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