“Le nostre città in continuo cambiamento”

Bruno Discepolo
La Repubblica-Napoli
10.01.2025


Sempre, nel corso della loro storia, le città si sono modificate, adattandosi ai tempi. E’ nella loro natura, se non lo fanno, periscono. Quel che sta accadendo però, in questo primo quarto di secolo del nuovo millennio, rischia di mettere in crisi uno dei caratteri identitari dell’idea stessa di urbanità. Le città sono nate anche, se non soprattutto, per dare ricovero e sicurezza a coloro che sceglievano di fondarle o anche solo di insediarvisi. In uno spazio protetto, anche perché all’epoca cinto di mura, ci si poteva più agevolmente difendere, da nemici o pericoli esterni. In questi anni l’umanità, o perlomeno una parte di essa, abitante nelle città e metropoli in particolare del vecchio continente o di quello americano, ma non solo, ha cominciato a fare i conti con una realtà nuova e sconcertante.

Il pericolo non è fuori lo spazio urbano ma dentro di esso e non si tratta del traffico cittadino, dell’inquinamento o della delinquenza comune, o dei rischi connessi ai cambiamenti climatici. È sufficiente camminare nel luogo sbagliato, nel momento sbagliato, per essere travolti da un auto, un Suv o un camion, a Natale a Magdeburgo o Berlino o Nantes, a Capodanno a New Orleans o il 14 luglio a Nizza. Eventi non confrontabili con l’11 settembre 2001 di New York, ma quello resta un episodio eccezionale ed unico, almeno sin ora, gli altri appartengono ad una fenomenologia più ricorrente, ed è purtroppo facile profezia immaginare che potranno ripetersi in futuro. Se questo è lo scenario, come difendersi, quali risposte dare? Solitamente, subito dopo gli attentati, si allestiscono barriere, si posizionano jersey all’imbocco delle strade e delle piazze, lasciando piccoli varchi pedonali, si ripropongono, dentro le città, mura e porte di antica memoria. Salvo smantellarle, poco dopo, quando l’emozione scema e l’esigenza di mobilità delle persone riprende il sopravvento.

Nuove misure si sperimentano ora in Italia contro un pericolo non necessariamente costituito da mezzi pesanti o veloci. Basta la sola presenza di un presunto pregiudicato o forse la postura o l’aspetto di un “diverso”, un extracomunitario per esempio, ed allora scatta l’interdittiva a poter anche solo entrare in una parte di città, più sensibile o pregiata, lo spazio della città si restringe e comincia a manifestarsi l’idea di cittadini di serie A o B, con differenti diritti a fruirne. Posti di blocco, con militari armati a selezionare gli aventi diritto ad entrare o rimanere fuori. Come tanti film di fantascienza, o catastrofisti, hanno anticipato nella loro evocativa narrazione, dando forma ai peggiori incubi sul futuro che ci attende.

Anche la libertà di movimento, all’interno di un organismo urbano, rappresenta un carattere costitutivo e identitario delle città. Spazi delimitati, percorsi circoscritti fanno più pensare a reclusori che non a ciò per cui una città è stata pensata ed edificata. Limitazioni solo più appariscenti di altre, sono già in uso da tempo: ticket di ingresso alle città o per le auto in centro, divieti per il fumo.

Nel frattempo, a Napoli, si sperimentano chiusure più limitate, ma non meno significative: i cancelli alla Galleria Umberto, una sorta di ossimoro, mettendo portoni ai passaggi concepiti come strade coperte, percorsi nati per connettere luoghi, i famosi passages parigini evocati da Walter Benjamin, e ora interdetti, come dimostrazione dell’impotenza di un’epoca non in grado di garantire la sicurezza a chi attraversa quella parte di città. Ma anche altre fenomenologie investono oggi l’idea stessa di abitare, almeno per come l’abbiamo coltivata sino ad ora. Le strade di molte città italiane sono affollate da masse che l’attraversano e le consumano. Sempre più manifestamente emerge un conflitto tra abitanti ed users, tra coloro che risiedono e sostengono economicamente il funzionamento dei servizi e quelli che ne usufruiscono o soltanto vi soggiornano come turisti. Interessi contrapposti di umanità confliggenti, che non rinviano solo all’idea di un mondo globalizzato, all’esplodere dei flussi turistici post pandemia o forse solo a ciò che già oltre venti anni fa profetizzava Domenico De Masi, con l’avvento di un’era all’insegna di un maggiore tempo libero, sottratto al lavoro, e del primato dell’industria del loisir. In questo scontro riemerge una questione più profonda, in termini di valori: una città è prima di tutti di coloro che la abitano oppure è patrimonio dell’umanità? Roma o Firenze o Venezia, ad esempio, è dei veneziani o appartiene ad un’idea di civiltà e di cultura universali?

Le città, almeno quelle a noi più vicine, non le megalopoli di 10 o 20 milioni di abitanti che costituiscono un universo a parte, stanno mutando forma e natura. Come sempre, al passo con i tempi che cambiano, anche se rimane incerta la direzione verso cui si muovono. Di sicuro occorrono approcci e strumenti adeguati se non per governare le trasformazioni in atto (una vera a propria presunzione, vista la complessità dei fattori in gioco ed il loro carattere eterodiretto), almeno per comprendere, monitorare e, ove possibile, indirizzare i processi.

Consapevoli anche che, nel mentre le città medie e grandi continuano ad attirare popolazione, salvo rinchiudersi in sé stesse, altrove, lontano dalle concentrazioni, le piccole città si spopolano, invecchiano, scompaiono dalla carta geografica. Dinamiche che appaiono al momento irreversibili, ma che pure occorrerà contrastare, per allontanare quelle immagini di più di una serie televisiva: campagne abbandonate, città decadenti, folle indistinte, militari in assetto di guerra.

 



 

Un mio intervento ospitato sulle pagine La Repubblica-Napoli.


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